Squid Game: recensione dell’ultimo capolavoro made in Corea
Squid Game, ultima fatica di Netflix Corea, è una serie tv particolare, che prende delle idee già viste in altre opere e le porta ad un livello superiore. A differenza di Alice in Borderland (con cui ha molto in comune), tutta la vicenda ha dei tratti molto più umani e poco “supereroistici”.
I personaggi, i loro rapporti e le loro reazioni sono terribilmente reali, genuine e viscerali in diverse situazioni. Il gioco di cui sono protagonisti li obbliga a mutare, slegandosi dal contratto sociale e diventando delle bestie individualiste e violente pur di sopravvivere.
Questo nuovo drama ci mette davanti alla fragilità della condizione umana, documentandola nella maniera più cruda e spaventosa possibile.
Recensione di Squid Game
Trama (senza spoiler)
Un gruppo di persone tremendamente povere e piene di debiti, viene reclutato per partecipare ad un “gioco” particolare che potrebbe fargli vincere una enorme somma di denaro. Attratti dalla possibilità di sollevarsi dalla loro condizione, Gi-hun e gli altri protagonisti si gettano a capofitto in questa strana avventura senza farsi troppe domande. Purtroppo non è tutto oro quello che luccica, e ben presto tutti capiscono cosa in realtà si cela sotto questi “giochi da bambini”: il rischio di perdere la vita.
Non proseguiremo oltre con la disamina di ciò che racconta la storia di Squid Game, in quanto potrebbe essere uno spoiler indesiderato. Comunque sia, lo svolgimento delle vicende della serie è orchestrato e sceneggiato con grande maestria, ogni situazione è diversa dall’altra e la serie si evolve episodio dopo episodio.
Nonostante la trama sia qualcosa di obiettivamente già visto (Saw o Alice in Borderland), il tutto è messo in scena in maniera originale e diversa. Squid Game non annoia mai, non è mai ripetitivo, ma anzi costringe lo spettatore a rimanere sempre incollato allo schermo. Questo è dovuto al sapiente utilizzo di vari colpi di scena (mai telefonati), ed ai vari cliffhanger alla fine di alcuni episodi chiave.
Il ritmo della narrazione potrebbe sembrare lento a primo acchito, ma in realtà così non è. Infatti, i dialoghi, sono una specie di pausa, un momento di tranquillità tra un gioco e l’altro, utile per farci capire la psicologia dei personaggi e la loro constante evoluzione all’interno della trama.
La fragilità della condizione umana
Benché il “gioco” perverso e malato sia una parte importantissima di Squid Game, la scena è occupata maggiormente dai personaggi e dalla loro evoluzione nel corso degli episodi. Inizialmente tutti sono contenti di partecipare a questa sfida, vogliono vincere per poter cambiare vita e sollevarsi da una condizione di miseria totale.
Questa dorata illusione dura poco, come detto, e la felicità lascia subito spazio alla naturale paura della morte ed alla volontà di fuggire da una brutta situazione indesiderata. Ma ciò che più colpisce e rende più vicini a noi i personaggi della serie è la fragilità e la malleabilità della mente umana.
Con il passare degli episodi, Gi-hun e gli altri, perdono progressivamente la loro umanità, diventano quasi assuefatti dalla morte e dalla violenza. Stracciano completamente il contratto sociale che sta alla base della nostra società e diventano bestie, lasciando spazio alla natura più primitiva degli uomini.
I rapporti che si erano venuti a creare crollano con uno schiocco di dita, soverchiati dall’avidità di voler vincere i soldi in palio e dall’inesorabile istinto di sopravvivenza. Gli amici diventano solo degli ostacoli da abbattere per assicurarsi la sopravvivenza ed il premio. Proprio per questo motivo Squid Game ha avuto questo successo. Squid Game ci ha mostrato, senza mezzi termini, la fragilità della condizione umana e della vita che diamo per scontata. Squid Game ci ha fatto vedere quanto gli uomini possano essere cattivi e bestiali, dimostrando quanto il concetto di società sia appeso ad un filo sottilissimo.
Chi gestisce il gioco
Anche tutte le persone che gestiscono, di fatto, i giochi hanno perso la loro umanità, sono diventate delle macchine che eseguono il loro compito senza pietà o scrupoli. Seguono delle rigidissime regole, non si fanno domande ed ubbidiscono ad una società strutturata come una piramide, al cui apice c’è il Frontman. Questo aspetto lo si può capire seguendo la storia parallela di Jun-ho.
Purtroppo le vicende di Jun-ho non sono state gestite nel migliore dei modi, alcune cose sono rimaste in sospeso, e forse saranno approfondite in futuro. Questo è uno dei pochissimi difetti di Squid Game.
Regia e fotografia
I registi coreani sono bravissimi a fare una cosa: mettere in risalto le condizioni di vita misere. Sembra una battuta, ma non lo è. Già in Parasite, ad esempio, avevamo visto il sapiente ritratto di una famiglia molto povera, modellato dalle mani di Bong Joon-oh.
Anche in Squid Game la regia fa un lavoro incredibile nel ritrarre queste situazioni, le fa sembra molto più reali , spaventose e vicine di quanto non siano. Anche durante le scene più cruente delle varie prove, l’occhio del regista sottolinea gli aspetti peggiori e crudi della morte e della condizione generale dei personaggi.
La fotografia, invece, mescola situazioni diverse ed apparentemente agli antipodi in maniera decisamente egregia. Passiamo spesso dalle coloratissime inquadrature fatte nelle sale dei giochi, agli anfratti bui dei quartieri poveri di Seoul oppure all’opprimente ma allo stesso tempo lussuoso ufficio del Frontman.
Una possibile seconda stagione?
Se qualcuno di voi ha familiarità con i drama coreani, saprà che la maggior parte di essi rispettano certi canoni fissi. Solitamente sono serie di una singola stagione, composte da 16 episodi dalla durata di oltre un’ora/un’ora e mezza. Squid Game in questo è diverso, la sua struttura è molto più internazionale, più orientata a tutto il mondo e non al solo pubblico coreano.
Il finale, inoltre, rimane estremamente aperto ad ogni tipo di possibilità, ed offre agli sceneggiatori la possibilità di approfondire le vicende con una seconda stagione. Visto il successo avuto, pensare ad una seconda parte non è del tutto una follia.