Stefano Cozzi, ex Assistant Team Manager di Blizzard, ci parla del futuro della compagnia
Secondo l’ex dipendente “a Blizzard non interessano più le persone”
Le recenti e terribili notizie che hanno coinvolto una delle case di produzioni più amate degli ultimi anni, Blizzard, hanno sconvolto l’intero mondo dei videogiochi. Con quasi 800 lavoratori licenziati, nonostante il fatturato record che la compagnia ha avuto nel 2018, si sono scatenate le polemiche su tutti i livelli dell’universo videoludico, a partire da giornalisti ed influencer per finire con gli sviluppatori e gli stessi giocatori.
Nel marasma delle informazioni e degli editoriali, uno è saltato subito all’occhio. Si tratta di un articolo pubblicato su Eurogamer da Stefano Cozzi che ripercorre la sua esperienza in Blizzard e Riot Games rivelando di come questi licenziamenti, che lui chiama “shadow firing” (per assonanza con lo shadow ban, ovvero il ban “nascosto” che si cercava di tenere segreto), siano purtroppo un’occorrenza regolare nell’industria di questo settore. Dopo aver letto il suo articolo abbiamo deciso di fargli qualche domanda per capire, data la sua esperienza all’interno di queste compagnie, quale secondo lui sarà il futuro di Blizzard.
Dal tuo editoriale si capisce come questi licenziamenti non sono nuovi nelle multinazionali. Secondo te, privarsi delle persone che si occupano di relazionarsi ed ascoltare il cliente aiuta la crescita dell’azienda?
Quello che cresce è la flessibilità aziendale, ci è stato esplicitamente spiegato sia a Blizzard che a Riot Games. Avere 30 persone che fanno community o publishing a tempo pieno ti dà dei costi in relazione alle opportunità maggiori che averne 70 attraverso agenzie esterne. È lo stesso discorso sentito molti anni fa nel settore della localizzazione: ormai ci sono pochissime aziende che hanno traduttori interni, perché preferiscono spendere il triplo, ma poter ridurre la forza lavoro di anno in anno senza nessun preavviso o malus per l’azienda, cosa che con dei dipendenti non puoi fare.
La flessibilizzazione delle aziende viene però a discapito del rapporto con il cliente.
Esatto. Viene meno proprio il contatto diretto con la community ed i giocatori, perché chi prende queste decisioni non crede nel comunicare. Secondo loro comunicare non dà valore, è gratis, e per chi deve arrivare a fine anno facendo quadrare i bilanci e guardando ai dividendi la comunicazione è solo una spesa.
Vista la tua esperienza nella comunicazione e nel rapporto con i clienti (Assistant Team Manager europeo per Blizzard, Publishing Manager europeo per Riot Games, ora Publishing Manager per Ignition) e visti i recenti problemi delle case di produzione, che non riescono a capire ciò che il cliente chiede, secondo te questa mancanza di comunicazione è dovuta a tutti questi cambiamenti o si tratta di un problema di fondo?
Secondo me l’esempio lampante è l’annuncio di Diablo Immortal al Blizzcon: quello è il risultato che ottieni quando incarichi una persona che non sa comunicare a gestire la comunicazione. Va tutto bene se annunci le cose belle che piacciono a tutti, ma quando l’annuncio non è gradito l’aver messo un game designer sul palco invece di un comunicatore genera molti problemi. È famosa la risposta “Ma non avete i cellulari?” alle critiche dei giocatori, e questa fase nasce da un problema di fondo: questa persona non ha tra le sue competenze la comunicazione con il pubblico. Tante aziende non lo vedono come importante perché i comunicatori e coloro che si rapportano con i clienti operano sul lungo termine, mentre le aziende pensano sempre più al quarter aziendale.
Ti faccio un altro esempio di comunicazione “mancata” con Blizzard: molte persone si sono lamentate recentemente con la casa di produzione per una feature mancante nei tornei, ovvero l’hero ban. Nonostante sia stato chiesto a gran voce da molti e sia stato implementato con successo in un torneo privato, queste richieste sono andate al vento. Ubisoft, nonostante non sia conosciuta come una delle case più attente ai bisogni degli utenti, ha introdotto questa stessa regola su richiesta della community.
Da questi cambiamenti si vede molto bene la ciclicità delle aziende: quando va tutto bene si comincia a pensare di poter anche smettere di comunicare con i giocatori, quando le cose iniziano ad andare male ci si accorge che l’unico modo per migliorare le cose è tornare a fare comunicazione. Ubisoft, che stava un po’ “inseguendo” sotto questo punto di vista negli ultimi tempi, si trova ad essere improvvisamente uno dei publisher che più ascolta i giocatori mentre gli altri perdono il passo. È facile secondo me pensare di non dover per forza comunicare quando vendi giochi anche solo perché sei tu, e secondo me è un evento ciclico. La scelta è questa: o Blizzard ed altre case come EA torneranno a fare comunicazione nei prossimi mesi o anni oppure continueranno a distaccarsi e a non capire più cosa vogliono i clienti.
Il punto fondamentale è proprio questo: Blizzard è rinomata per essere una casa di produzione con pochi IP ma di altissima qualità e molto amati dalle community. Potremmo veder cambiare questa politica all’interno della compagnia (come peraltro chiesto da Activision, holder di Blizzard)?
Non è più una scelta, questo mi è stato anche confermato da persone che ancora lavorano in Blizzard, il messaggio è ben chiaro. Activision vuole più prodotti sul mercato, la compagnia non accetta che ci siano anni senza nuove uscite come è previsto per il 2019 (Diablo Immortal probabilmente verrà anticipato a quest’anno), e tutte le persone che potevano opporsi a queste decisioni non ci sono più. All’interno non ci sono più figure che possano spingere nella direzione del contatto: quando le politiche interne si muovono verso i Chief Financial Officer, come si è visto in Blizzard ultimamente, vuol dire che chi decide si concentra sul budget. E se qualcuno all’interno dell’azienda vuole controbattere non può farlo, perché si rischia di vedere il budget per il proprio gruppo tagliato come ritorsione.
A tal proposito, grandissimo oltraggio per il bonus da ben 15 milioni di dollari per il nuovo CFO unito ad uno stipendio da 900.000 dollari annui e un bonus obiettivo da 1.35 milioni…
Per una persona che, ci tengo a precisare, era già un dipendente e ha solo cambiato ruolo!
Esattamente, e questa scelta ha suscitato molto malcontento. Dai giocatori alla Game Developers Association, che ha minacciato un’azione legale, a chi chiede l’unionizzazione del settore (una forma americana simile alla nostra sindacalizzazione). Secondo te questi movimenti possono portare a qualcosa o sono parole gettate al vento?
È difficile dirlo… Quello che io ci tengo a far capire a chi subisce questi licenziamenti è che chi impone questi tagli non ha le skill per produrre videogiochi. È come far fermare la macchina di una fabbrica: se la gente non accetta più di lavorare in certe condizioni o in compagnie che li trattano in questo modo queste aziende non avranno più nessun prodotto da vendere. Non c’è più nulla che possano fare perché non ne hanno le competenze. Per questo un grande impegno deve essere messo nel mantenere dei buoni rapporti con gli sviluppatori e i dipendenti. Se le grandi compagnie continuano a comportarsi in questo modo però io prevedo un futuro, che in realtà sta già arrivando, dove davanti all’offerta di lavoro uno sviluppatore non viene a Blizzard per paura, perché pensa “non voglio finire come un numero nel bilancio aziendale”.
Quindi potremmo vedere, nel prossimo futuro, sempre più sviluppatori migrare verso la scena indipendente o verso aziende di minori dimensioni?
Più che di minori dimensioni io le vedo come meno controllate, perché il problema sorge quando chi prende le decisioni non è dell’ambiente. Se si cerca di mantenere tutto all’interno del settore, come era anche Blizzard all’inizio, in un periodo dove chi prendeva decisioni era anche in carico di gestire Warcraft 2, tutti sanno che il tuo capo, il tuo intelocutore, capisce i tuoi bisogni di sviluppatore. Finchè tutto viene semplificato in “voglio più prodotti l’anno e non mi importa quante ore lavorate ogni settimana” si creano problemi, e l’abbiamo visto con Rockstar, con CD Projekt Red, e ora si sta vedendo anche con Blizzard. È una transizione che porta a dare meno importanza all’essere umano rispetto al prodotto.
I tagli hanno riguardato esclusivamente i settori Publishing ed Esport. Nonostante ciò, l’esport blizzard continua a crescere nei settori più apprezzati dall’azienda. Nonostante il grandissimo taglio su Heroes of the Storm, Hearthstone continua a spingere e la Overwatch Leaue, così come i Contenders, si è ulteriormente allargata. Meno persone e più impegno: può arrivare un calo di qualità nel settore esport?
Sicuramente, anche se non è una cosa che si vedrà nei prossimi mesi. Di solito dei tagli in questi settori si iniziano a notare dai sei ai dodici mesi dopo, perché quello è il momento nel quale il giocatore si accorge che non sta più dialogando con nessuno e che nessuno lo ascolta. Quello è il momento nel quale ci si accorge che il prodotto, anche dal punto di vista dell’esport, non va incontro alle sue necessità perché è rimasto “bloccato” a sei mesi o un anno prima. Non saranno questi prodotti ad essere maggiormente impattati da questi cambi, ma di sicuro con le prossime stagioni si noterà la differenza se le cose rimarranno così come sono diventate.
Ultima domanda: dal punto di vista di ex dipendente, di collega, di uomo, che appello vuoi fare a Blizzard?
Non c’è da fare nessun appello a questa società perché non le interessa, è chiaro che il loro messaggio sia “non ci importa delle persone”, altrimenti non faresti una call con gli azionisti nella quale metti insieme le frasi “è il nostro migliore anno di sempre” e “lasciamo a casa 770 persone”. L’appello è per chi ci lavora, per chi è rimasto a casa e per chi intende lavorare in queste compagnie: a loro voglio ricordare che un colloquio va in due direzioni. Ovvio, l’azienda deve sceglierti, ma anche voi dovete scegliere loro; scegliete quindi delle compagnie che vogliono investire sulle persone e non solamente sui trimestri di profitto.