Special, una serie Netflix breve ma intensa
Ultimamente sembra che il mio io interiore sia sempre più attratto da serie dalla breve durata. Questa attrazione più che strana la definirei un paradosso.
(Se qualcuno si dovesse domandare il perché di questa definizione, di seguito la spiegazione, altrimenti, siete liberi di saltare queste righe e buttarvi nell’analisi della serie Special!)
La risposta è semplice, cerco serie dalla breve durata perché mi danno la sensazione di non dovermi impegnare troppo. A livello mentale mi fanno sentire meno vincolata. Ma di fatto è tutta un’illusione. Infatti, finisce sempre che invece di guardare un episodio, ne guardo tre.
Come questa mattina. Avevo del tempo e ho pensato: “Oh… finalmente inizio quella serie.”
Vado su Amazon Prime. La cerco. Metto play. Poi vedo la durata. Istintivamente esco dalla visione e mi getto sulla serie che avevo iniziato ieri. Dovevo riprendere dal terzo episodio. Ogni puntata dura dai dieci ai quindici minuti. Conclusione: ho finito Special. Tempo dedicato alla visione: oltre l’ora. Deduzione finale: potevo finalmente iniziare la serie su Prime.
(Questo non significa che non abbia gradito Special. Al contrario, l’ho apprezzata molto come noterà chi andrà avanti nella lettura.)
Comunque, fatta questa piccola riflessione arriviamo al nocciolo della questione: Special.
Special è una serie comedy, sbarcata su Netflix il 12 aprile 2019. La storia si basa sul libro di memorie I’m Special: And Other Lies We Tell Ourselves (2015) di Ryan O’Connell, che racconta la sua vita di omosessuale con paralisi cerebrale. Lo scrittore è anche l’attore protagonista nella serie.
Il telefilm narra quindi la storia di Ryan, un ragazzo gay affetto da una lieve paralisi cerebrale, che tenta di riscrivere la sua identità. Il racconto inizia con Ryan che diviene stagista di un magazine online. Qui, il primo giorno, per una serie di eventi casuali, si ritrova a raccontare che i suoi problemi fisici sono sorti a causa di un incidente. Attraverso questa piccola bugia troverà finalmente il coraggio di affrontare la vita come sempre aveva desiderato di fare.
Special è una serie a suo modo particolare. Sebbene possa non risultare come una novità assoluta (mi viene subito in mente, con le dovute differenze, la serie successo Atypical, sempre di fabbricazione Netflix, o comunque, tornando indietro nel tempo, film dal successo planetario come Mi chiamo Sam).
Le novità principali, a mio avviso, sono tre. O meglio, la novità sta nel congiungimento di questi tre punti:
- Il protagonista ha una malattia, ma lui stesso si definisce sfortunato perché il suo è un caso lieve.
- Il protagonista è gay.
- È una storia vera e il suo interprete principale è colui che l’ha vissuta realmente.
(Magari ho perso qualche film o qualche serie e non è una novità questa fusione, in quel caso lasciatemi passare il fatto che a miei occhi sono apparsi come tali).
(Piccola chicca su Special: tra i produttori della serie vi è anche Jim Parsons. Se state pensando: “Cavoli, questo nome non mi è nuovo!”, avete perfettamente ragione. Il produttore in questione è proprio Sheldon Cooper di The Big Bang Theory, che ha deciso di aiutare Ryan a trasformare la sua storia in una serie TV.)
Il telefilm ha il vanto di essere chiaro e incisivo. In pochi episodi ed in ancor meno tempo i personaggi ti colpiscono a pieno.
(Ricordo per chi avesse saltato la parte sopra, che la durata media di un episodio è di 12 minuti.)
Inoltre, riesce ad affrontare argomenti delicate in maniera chiara, a volte divertente e mai offensiva.
Il passo tra simpatico e di cattivo gusto, quando si affrontano determinate tematiche, è breve. Special riesce a non superare mai quella soglia.
(mini-spoiler)
Anche la messa in scena della perdita di verginità del protagonista con un gigolò non risulta affatto volgare. La scena priva di filtri mette a nudo la fragilità di Ryan. Quello che si percepisce è la sincerità del momento.
(fine mini-spoiler)
I due personaggi principali sono madre e figlio. A loro si uniscono poi una serie di persone che fanno da contorno alla storia e che permettono a chi guarda di cogliere a pieno l’evoluzione psicologica che i due vivono. Ogni personaggio secondario svolge il ruolo che potremo definire, rifacendoci alla classificazione di Propp per le fiabe, di aiutante.
Ryan, ragazzo affetto da paralisi cerebrale, inizia a svolgere un tirocinio in una rivista on-line. Per tutto il tempo mente a sé stesso ed agli altri, ma proprio grazie alle opportunità che avrà grazie alla bugia detta, e in particola alla sua capa, apre gli occhi su chi è veramente.
Sulla sua boss vorrei spendere due parole. Sebbene non sia tra i personaggi principali, il ruolo che questa svolge è determinate nella trasformazione e nella crescita del protagonista. Agli occhi dello spettatore appare come stronza e senza cuore, ma il suo continuo “essere cattiva”, specie nei confronti “dell’eroe”, non fanno che permettere a lui di crescere. Vivere sotto la famosa campana di vetro non è per nulla utile. Ryan è cresciuto protetto da ogni cosa. Lei è l’unica che, a suo modo, lo fa sentire realmente normale.
Illuminanti per Ryan saranno infatti le sue parole dopo l’incontro post appuntamento al buio. Questa scena a mio avviso è la più importante per capire a pieno l’evoluzione del protagonista. Infatti, quantunque lo svolgersi dell’azione e il dialogo manterranno quel ritmo e quell’eccessivo stereotipo tipico delle scene in ufficio, ascoltando attentamente le parole, non il tono, ma le parole, si ottiene una chiara immagine di quello che è: Ryan è stato fin ora un bambino. Lì, in quel momento, si accorge della realtà ed è il punto di svolta nella sua maturazione.
L’altro personaggio chiave è Karen (Jessica Hecht), la madre.
Una donna che ha annullato la sua vita per accudire il figlio malato. A questo si aggiunge la cura della madre ormai anziana. Una donna che ha fatto qualunque cosa per tenere il figlio nella bolla. Per amore, certo. Ma amore o meno, ha annullato sé stessa. Per quanto provi a uscire da questo circolo vizioso che lei ha, volente o nolente, per necessità o per scelta, creato, alla fine non riesce a staccare il cordone ombelicale.
Il conflitto che questa donna vive, nonostante la brevità delle puntate, è tracciato in maniera magistrale. La sua sofferenza e i suoi contrasti interiori sono palesi agli occhi degli spettatori. Persino l’amore e l’odio che prova nei confronti del figlio sono lampanti. A mio dire il personaggio meglio riuscito.
(Per apprezzare a pieno questa figura, vi consiglio di guardare la serie in lingua originale in quanto, oltre ad essere stato fatto un pessimo doppiaggio, la voce scelta per Karen è, secondo il mio modestissimo parere, molto fastidiosa.)
Il quadro messo su da Netflix non è una fiaba, ma una triste o felice realtà. Insomma, è la vita, fatta da bocconi dolci e bocconi amari.